“Giocare senza tifosi è come ballare senza musica”
(Eduardo Galeano, ‘Splendori e miserie del gioco del calcio’)
Nel calcio femminile il tifoso che va allo stadio sembra una specie in via di estinzione. I numeri degli spettatori (peraltro raramente diffusi dai club), e le stesse immagini delle partite trasmesse in streaming su DAZN, sono piuttosto impietosi in questo senso. Gli stadi sono il più spesso vuoti o semivuoti. nLe rare eccezioni confermano la regola (nella foto: il Tre Fontane dove gioca la Roma).
È stata creata una razza geneticamente modificata, vale a dire il tifoso virtuale. Quello che resta inchiodato davanti a un qualsiasi device per seguire le partite (anche su schermi decisamente improbabili come quelli dei cellulari) piuttosto che seguire l’evento dal vivo
Le criticità economiche (ma anche logistiche, organizzative e comunicative) non sono certo di grande aiuto. In particolare, la Serie A Femminile sembra essersi autoridotta al ruolo di (sbiadito?) clone del corrispettivo maschile.
Il movimento femminile resta così l’anello più debole e più precario del mondo pallonaro italiano. Un pianeta dal sapore vagamente kafkiano che, per crescere e per sopravvivere a certi livelli, avrebbe bisogno di un radicamento effettivo a livello territoriale.
Per portare tifosi all’interno di stadi strutturalmente compatibili si dovrebbe puntare su risorse (economiche e umane) di sicuro reperibili nel contesto di riferimento, comprese le organizzazioni sociali del territorio.
I tifosi, che del territorio in cui si muove il club sono l’espressione più pura, andrebbero sempre e comunque cooptati per realizzare un qualunque progetto di crescita.
Anche nel femminile i tifosi rappresentano il lato etico del calcio. L’ancora di salvezza cui attaccarsi per rendere concreto un futuro sostenibile. Riportarli al centro del sistema significherebbe (significa) voler davvero aiutare la piramide a crescere partendo dalla base.