Il Grande Torino suscita ancora oggi fascino e nostalgia negli appassionati di calcio. Era la squadra di Valentino Mazzola che, sospinto dal mitico trombettiere del Filadelfia, a un certo punto della partita si tirava su le maniche della sua maglia granata. A quel segnale la squadra cambiava il passo. Il destino era segnato, per qualsiasi avversario.
C’è stato un tempo nel quale esisteva ancora l’attaccamento alla maglia. Ogni squadra aveva il suo giocatore bandiera. Il capitano del Toro, Valentino Mazzola, si identificava con la maglia granata. Se la teneva appiccicata addosso, dentro e fuori dal campo.
Quelli come Mazzola erano giocatori che i tifosi e la gente comune consideravano in simbiosi con la città. Per questa ragione suscitavano un rispetto profondo. Erano amati di un amore senza limiti.
Un modello di calcio ormai morto e sepolto. Non solo sono scomparsi i giocatori bandiera ma, insieme con loro, anche i presidenti alla Ferruccio Novo. Condannato dal destino a non trovarsi sull’aereo che tornava da Lisbona.
La società che dirigeva era, per lui, ragione di vita e di vanto. I giocatori? Tanti figli, tutti diversi, da tirare su come meglio si poteva. Altri tempi, si dirà. Altri stili di vita. Altri valori. Se migliori o peggiori, sarà il tempo a dirlo.
La storia del Grande Torino fu anche quella dell’incredibile (irripetibile?) sinergia tra una città e la sua squadra di calcio. La Juventus contava poco in città. Esisteva il Toro, e soltanto il Toro. La realtà granata pervadeva la gente fin nel profondo dell’animo.
Il 4 maggio 1949 l’aereo che riportava a casa la squadra dalla trasferta in Portogallo, dove i granata avevano giocato con il Benfica, si schiantò sulla collina di Superga. La gente rimase annichilita. La città si fermò. Si strinse attorno ai suoi campioni in un solo, disperato e appassionato abbraccio.
L’incipit della cronaca dei funerali del Grande Torino dettata agli stenografi da Alfonso Gatto, un poeta prestato allo sport come allora spesso succedeva, è ancora oggi da brivido: “I morti della sera di maggio sono allineati tutti insieme, in un unico campo di erba verde”.
Nelle partite giocate in casa c’era un momento in cui Oreste Bolmida, lo storico trombettiere del Filadelfia, suonava la carica. A quel punto Valentino Mazzola si tirava su le maniche della maglia. Quello squillo, e il gesto che seguiva, davano inizio al mitico “quarto d’ora granata”.
Difficile spiegare oggi cosa fosse e quanto significasse per i giocatori in campo quel gesto apparentemente così semplice del loro capitano. Il calcio sognato dei sognatori che, forse, non rivedremo più.